Breve storia della parola “cazzo”: una parola, tanti miti

È la parola forse più diffusa, enfatica, versatile della lingua italiana. E, forse, anche tra le più antiche: stiamo parlando della parola cazzo. In pieno spirito con i fabliaux medievali di cui leggerete più avanti, no, non servirà censurare il termine.

Questa parola, che evoca tanti significati (dal genitale maschile all’imprecazione, passando anche per sentimenti di entusiasmo), attraversa la lingua italiana da più tempo di quanto pensiate. E anche i suoi corrispettivi stranieri hanno una lunga storia, a testimonianza del suo valore ancestrale. Ma come nasce la parola “cazzo”? Per quanto breve e banale sia, la sua origine è stata a lungo dibattuta. Tanto che oggi non abbiamo certezze, ma solo ipotesi.

Una parola, tante origini

Quella più a lungo accreditata è stata formulata da Angelico Prati, glottologo e linguista italiano che insegnò all’Università di Pisa e compì uno studio sui linguaggi gergali (Voci di gerganti, vagabondi e malviventi, 1940). Secondo Prati, la parola cazzo verrebbe dal lombardo cazz, che significa mestolo (o tazza), che a sua volta in latino era cattia. Cattia deriverebbe invece dal greco antico kyáthion, «mestolino», appunto. Da lì, l’estensione metaforica per la forma del mestolo simile all’organo virile. Non sarebbe quindi un mistero l’assonanza tra cazzo e tutte le parole derivanti da cazzia che rientrano nella categoria attrezzi da cucina, come casseruola o cazzuola.

La prima apparizione documentata della parola cazzo la si deve al poeta italiano Rustico Filippi, vissuto tra il 1230 e il 1300 e noto come l’iniziatore della poesia burlesca o comico-realistica. Nel sonetto che Filippi dedicò a Fastello dei Tosinghi, podestà guelfo di San Gimignano, il termine è declinato al femminile, proprio come cattia: “Festel, messer fastidio de la cazza, / dibassa i ghebellin a dismisura”. Non è difficile intendere come Filippi stia apostrofando il guelfo.

cazzo
“Roman de la Rose”, manoscritto francese XIV sec.

Come giustificare, però, il passaggio dal femminile cattia al maschile “cazzo”? Non c’è spiegazione, purtroppo. Quello che è certo, tuttavia, è che il termine è declinato al maschile da secoli or sono e che, a parte il sonetto di Filippi, esiste solo un altro documento in cui la parola è al femminile, un componimento anonimo del 1521.

Cazzo, al maschile, lo si trova in diversi testi fin dal XIII secolo, tra cui: un documento del 1266 recuperato in provincia di Trento (dove è usato come soprannome), in due componimenti comici del XIV secolo e in un glossario latino-eugubino (in riferimento alla città di Gubbio) di metà 300, quest’ultimo particolarmente interessante perché recita: “mentula, id est lo caçço” (mentula significa cazzo), ed oggi sappiamo che minchia deriva proprio dal latino mentula.

Secondo un’altra possibile etimologia, ma oggi respinta da molti linguisti, il termine viene da oco, cioè il maschio dell’oca, con aggiunta di -azzo e aferesi iniziale (ossia la caduta della vocale o). Le analogie tra gli uccelli e il membro virile sono, effettivamente, molto diffuse. Altra ipotesi che ha avuto molta fortuna vede protagonista il greco tardo con akátion, «albero maestro» (in riferimento al pene in erezione).

Infine, l’ultima teoria vorrebbe che cazzo sia un termine del 1300 proveniente dall’area umbro-toscana, nello specifico derivato dal verbo capitiare, cioè cacciare ma anche “infilare, mettere dentro con forza”. In tal senso, condividerebbe l’etimologia con il verbo usato in campo navale “cazzare” (cioè “tirare a sé una fune”). Da notare che molte delle documentazioni sono originarie dell’Italia centrale.

Anche Leopardi scriveva “cazzo”

Mentre c’è molta incertezza sull’etimologia della parola, ciò che è sicuro è che, nel 1400, tutti usavano (se non pubblicamente, privatamente) la parola cazzo in tutte le accezioni che usiamo ancora oggi. Ne abbiamo testimonianza dalle lettere delle menti più illustre della storia, ma anche in piccole divagazioni come quelle di Leonardo Da Vinci, che in una raccolta di facezie scrisse: “O non mi debba io meravigliar con ciò che sia tutto un omo paghi altro che cinque soldi, e a Firenze io, solo a metter dentro el cazzo, ebbi a pagare dieci ducati d’oro?” In poche parole, si stava lamentando di una “tassa di soggiorno” per entrare in città!

Ancora, Nicolò Machiavelli, in una lettera del 1514, scrisse: “Qui non ci sono femmine, che casa del cazzo è questa?” E come non citare il poeta Pietro Aretino, che nei suoi Sonetti Lussuriosi scriveva: “E se tu il cazzo adori, io la potta amo!”. E persino Giacomo Leopardi, qualche secolo dopo, in una lettera a suo fratello Carlo scrisse: «Non mi dir più che m’abbia cura, perché son guarito e sano come un pesce in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti

Uso in inglese e francese

Ma adesso un’occhiata veloce anche ad altre lingue. In inglese, la parola cock fa riferimento al pollo, dall’inglese antico cocc, cioè “uccello maschio”. L’analogia vien da sé. Un suo sinonimo è “dick”, che non indica solo il membro maschile, ma è anche un insulto (stronzo o, se volessimo mantenere il riferimento al pene, “cazzone”), ed è diffuso tra gli anglofoni nel senso dispregiativo da metà diciassettesimo secolo. A metà 500, invece, “dick” ero uno slang per indicare, più semplicemente, gli uomini.

In Francia, esistono diverse opere che testimoniano la diffusione di slang relativi ai genitali maschili già dal medioevo. Nacque perfino un dibattito sul loro utilizzo o meno nella letteratura, come testimonia il Roman de la Rose di Jean de Meung, composto durante la seconda metà del XIII secolo. Lo scrittore qui mette in scena un dibattito fra Ragione e Amante, a proposito delle parole oscene. Una ragazza sicura di sé e tutt’altro che timida, allegoria di Ragione, utilizza la parola coilles (coglioni), suscitando l’ira del suo compagno, Amante, il quale afferma: “Non vi ritengo cortese, che mi avete menzionato i coglioni: che non stanno per niente bene in bocca a una ragazza ben educata”.

E lei, in pieno spirito naturalista, risponde che qualsiasi cosa buona in sé può essere chiamata col suo vero nome, e che non c’è bisogno di vergognarsi “se chiamo col solo testo, senza aggiungere glosse, quelle nobili cose che il Padre mio in Paradiso fabbricò un tempo con le sue mani; perché volentieri, e non controvoglia, Dio ha messo nei coglioni e nel cazzo forza di generazione.” E conclude con: “Coglioni è una bella parola e mi piace, e anche cazzo.”

cazzo
Alessandro Barbero

Lo stesso si leggerà nei fabliaux francesi medievali, racconti che ricordano molto Boccaccio nello spirito, ma con più libertà nel linguaggio. Fotre, vit (“cazzo”) e coille sono solo alcune delle parole oscene qui utilizzate. I fabliaux francese, oltre ad essere divertenti, ci offrono anche un ritratto interessante della società del tempo, ad esempio il fatto che l’uso della parolaccia nell’oralità era una questione prima di tutto di classe (i nobili e i ricchi, pubblicamente, si guardavano dall’utilizzare linguaggio osceno) e poi di genere (dalle donne medievali non ci si aspettava linguaggio scurrile). Se volete leggerne alcuni, trovate una raccolta tradotta in italiano dallo storico Alessandro Barbero che, in pieno rispetto dello stile dei fabliaux, l’ha chiamata in maniera alquanto singolare: “La voglia dei cazzi.”

Insomma, cosa ci insegna la storia antica di questa parola? Che gli uomini di tutte le epoche, quelli del medioevo e quelli del presente, perfino quelli del futuro, hanno più cose in comune di quanto immaginiamo!

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