L’eutanasia, che in greco significa “buona morte”, è attuata nel momento in cui lo stato fisico o mentale di un individuo non è più ritenuto idoneo a sostenere uno stile di vita accettabile. Ciò in Italia non è visto di buon occhio ma in passato, in Sardegna, una donna vestita di nero aveva il compito di porre fine alle sofferenze altrui: s’accabadora (“colei che finisce”). Non si hanno prove di tale pratica, ma si dice che abbia operato nella Sardegna centrale e settentrionale fino al ‘800 e alcune testimonianze affermano che abbia agito anche nel ‘900.
La donna in questione era un’anziana che spesso, oltre ad occuparsi di dare la pace ai moribondi, era capace di togliere il malocchio o scoprire dove si trovava il bestiame rubato. Inoltre si pensava fosse la stessa donna che svolgeva il ruolo di levatrice, ossia colei che aiutava a partorire. Come portava la vita, portava la morte. Nel primo caso indossava un abito bianco, o comunque chiaro, nel secondo un abito nero.

La leggenda de s’accabadora
Alcuni studiosi affermano si tratti di persone reali che, su richiesta dei famigliari o dello stesso ammalato, si assumevano il compito di dare una morte rapida alla persona interessata. Il tutto senza bisogno di ricevere pagamento in denaro, ma solo qualche prodotto della loro terra in quanto essere retribuiti per porre fine alla vita era contrario ai dettami religiosi. Si narra che le pratiche di uccisione usate da s’accabadora fossero varie: soffocamento con cuscino, strangolamento ponendo il collo tra le sue gambe, colpo all’individuo sulla fronte o sulla nuca tramite su matzolu (bastone d’olivo).

Secondo la tradizione, se l’individuo tardava a morire voleva dire che molto probabilmente doveva scontare un grave peccato commesso durante la sua vita. Ad esempio, se l’uomo aveva spostato le pietre che segnavano il confine di un terreno o se aveva rubato il giogo (attrezzo agricolo fondamentale per una società contadina) doveva scontare la pena. In questi casi, s’accabadora poneva un giogo in miniatura sotto il cuscino del moribondo per alleviare la sua agonia.
Prima di passare all’eutanasia, s’accabadora eliminava dalla stanza tutto ciò che potesse essere sacro: santini, medagliette, crocifissi, etc. Infatti si pensava che queste, tramite le preghiere dei cari, andassero a prolungare il distacco dell’anima dal corpo. Proprio per questo motivo, oltre a spogliare la stanza dagli oggetti sacri, richiedeva ai famigliari di uscire. Se dopo queste azioni la morte non sopraggiungeva, si passava all’eutanasia.
S’accabadora arrivava nella casa del moribondo, di notte, vestita di nero e col volto coperto. Quando la porta si apriva, il malato capiva che la sua agonia stava finalmente giungendo al termine.
É realmente esistita?
Non essendoci prove concrete sulla sue esistenza, le storie rimangono più che altro chiacchere. Nel 1800 alcuni viaggiatori come Alberto della Marmore e William Henry Smyth accennarono dell’esistenza di questa macabra figura. Nel 2005 fu invece Eliano Cau, nel libro Deus ti salvet Maria, a parlarne e a denunciarne il modus operandi.
Le ultime pratiche eseguite da s’accabadora avvennero nel ‘900: Una a Luras (1929), una a Orgosolo (1952) e una a Oristano. La prima coinvolse un uomo di 70 anni per la quale s’accabadora venne condannata. Tuttavia i carabinieri, la chiesa e il Procuratore del Regno di Tempio Pausania concordarono sul fatto che si trattò di un gesto umanitario. Inoltre un’anziana signora, Paolina Concas, intervistata da Dolores Turchi nel 2008, affermò di aver visto s’accabadora agire a Seulo, nella propria cosa, dove la zia soffriva da giorni senza però riuscire a morire.

Ancora oggi la figura dell’accabadora è avvolta nel mistero, alcuni antropologi pensano non sia mai esistita, nonostante ci siano delle testimonianze convincenti. Affermano invece si trattasse di donne che davano conforto alle famiglie dove era presente un moribondo, fino all’ultimo istante di vita. Donne che quindi non toglievano la vita, ma che procuravano sostegno morale fino alla fine.