Il nuovo progetto animato di Bob-Waksberg esplora le insidie della nostalgia familiare
Quando si parla di animazione per adulti, il nome di Raphael Bob-Waksberg evoca subito immagini surreali e dialoghi affilati. Dopo il successo di BoJack Horseman, serie che ha saputo unire umorismo nero e profondità psicologica, le aspettative su ogni suo nuovo lavoro restano altissime. Il suo approccio emotivo e visionario ha lasciato un’impronta duratura nella narrazione animata contemporanea.
Con il passare degli anni, la televisione animata ha smesso di essere solo una questione per bambini. Serie come Rick and Morty, Undone e lo stesso BoJack hanno mostrato quanto sia possibile usare l’animazione per esplorare il trauma, la perdita e l’identità. Proprio su questo crinale si muove anche il nuovo progetto di Bob-Waksberg, pur prendendo una strada diversa.
Il tema della memoria e del tempo non lineare si è già affacciato in altri esperimenti narrativi, ma raramente è stato trattato con la stessa ambizione emotiva. Raccontare una storia di famiglia attraverso episodi sparsi nel tempo è una sfida che può affascinare o confondere. Il rischio, però, è quello di scivolare nella ripetizione o nell’autocompiacimento.
La rappresentazione della famiglia ebraica americana nella cultura popolare statunitense ha una lunga tradizione, fatta di autoironia e dolore rielaborato. In questo nuovo lavoro, si cerca un equilibrio difficile tra autenticità e universalità, tra memoria personale e dramma collettivo.
Un’estetica audace per una narrazione frammentata
La nuova serie animata Long Story Short punta su uno stile visivo immediatamente riconoscibile: tratti spessi, colori vividi e ambientazioni semplificate che richiamano un’estetica tra Van Gogh e Hanna-Barbera. Questo impianto visivo, volutamente impreciso e sfocato, rispecchia la natura instabile e soggettiva del ricordo. Tuttavia, la forza delle immagini non sempre trova corrispondenza in una narrazione altrettanto coinvolgente.
La serie, ambientata a San Francisco, segue in modo non cronologico le vicende dei membri della famiglia Schwooper, attraversando generazioni, tra matrimoni, divorzi e lutti. Il tono è malinconico e intimista, con momenti di surrealismo emotivo. Ma proprio questa scelta narrativa rischia di rendere la storia troppo introspettiva e disconnessa dal contesto contemporaneo, in un’epoca segnata da crisi globali e collettive.

Personaggi e contesto che non sempre convincono
Tra i personaggi spicca Yoshi, interpretato da Max Greenfield, pensato come l’anima tenera e caotica della serie. Tuttavia, le sue vicende risultano spesso superficiali, in netto contrasto con i drammi vissuti dagli altri membri della famiglia. La sua ossessione per locali di tendenza e mode digitali lo rende più una caricatura che una figura emotivamente solida.
Il contesto della pandemia da COVID-19 viene utilizzato come sfondo, ma senza incidere veramente sulla narrazione. La San Francisco rappresentata è distante dal suo volto reale, fatto di contraddizioni sociali e disuguaglianze esasperate. Ne emerge un racconto su un’élite liberale che, pur attraversando piccole crisi personali, non riesce a parlare alla complessità del mondo esterno. Un’opera esteticamente affascinante, ma che rischia di restare chiusa nel proprio universo autoreferenziale.