News

Come la fast fashion del mondo ricco pesa sull’Africa: la nuova legge francese nel mirino dei brand

La fast fashion e i suoi effetti sull’ambiente africano

All’arrivo alla discarica di Dandora a Nairobi, capitale del Kenya, le prime sensazioni che travolgono sono le montagne di rifiuti che si estendono a perdita d’occhio, fumanti in alcuni punti, emanando un odore acre che irrita gli occhi e si insinua nella gola. Ogni mattina, uomini, donne e cicogne marabù, grandi uccelli simili agli avvoltoi, setacciano il sito alla ricerca di risorse per sopravvivere un altro giorno. Bottiglie di plastica da rivendere, un osso da rosicchiare… Ma c’è qualcosa di più in questo luogo: innumerevoli brandelli di tessuto provenienti da abiti scartati.

La maggior parte di questi vestiti non ha origine in Kenya. Un’indagine della Changing Markets Foundation ha rivelato che oltre 900 milioni di capi di abbigliamento usati sono stati esportati in Kenya da Europa, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Cina solo nel 2021. Di questi, più della metà erano considerati rifiuti, invendibili, e più di un terzo probabilmente conteneva fibre a base di plastica che non si biodegradano.

Invece di decomporsi, queste fibre si scompongono in microfibre sempre più piccole che possono contaminare il cibo o essere inalate nei polmoni. “La plastica è così economica da produrre che ora costituisce la maggior parte dei nostri vestiti,” afferma Imogen Napper, scienziata marina alla University of Plymouth, Regno Unito. “E fu inventata solo 100 anni fa. La conosciamo sotto i nomi di poliestere, acrilico, nylon…”

Il mercato di Gikomba a Nairobi è un luogo simbolo di questo fenomeno. Qui, tra i banchi affollati, è facile trovare abiti di seconda mano provenienti da ogni parte del mondo, una testimonianza concreta della globalizzazione della moda e della sua impronta ambientale.

L’impatto ambientale della moda usa e getta

L’industria della moda veloce ha rivoluzionato il modo in cui consumiamo i vestiti, ma a quale costo? Con la produzione di capi sempre più economici e la rapida rotazione delle collezioni, i consumatori sono incoraggiati ad acquistare e scartare con maggiore frequenza. Questo ciclo inarrestabile contribuisce enormemente alla quantità di rifiuti tessili che finiscono nei paesi africani, incapaci di gestire un tale flusso.

La presenza di fibre plastiche nei capi d’abbigliamento rappresenta una sfida ambientale significativa. Questi materiali sintetici, economici da produrre e diffusi in tutto il mondo, non solo inquinano gli ecosistemi marini e terrestri, ma pongono anche rischi per la salute umana. Le microplastiche derivanti dalla decomposizione di questi tessuti possono entrare nella catena alimentare, con effetti ancora in gran parte sconosciuti.

Le nuove leggi e l’attenzione globale

Di fronte a una situazione così critica, alcune nazioni stanno iniziando a prendere provvedimenti. La Francia, ad esempio, ha recentemente introdotto una nuova legge che mira a responsabilizzare i brand di moda rispetto alla gestione dei rifiuti tessili. Questa normativa richiede alle aziende di farsi carico del destino dei propri prodotti anche dopo che sono stati scartati dai consumatori.

Queste misure legislative hanno messo i grandi marchi sotto la lente di ingrandimento, sollevando dibattiti sulla sostenibilità e l’etica della moda. Le aziende sono ora chiamate a ripensare i propri modelli di produzione e distribuzione, adottando pratiche più rispettose dell’ambiente e dei diritti umani.

In conclusione, la questione della fast fashion e del suo impatto sull’Africa e sul mondo intero è complessa e richiede azioni concertate da parte di governi, aziende e consumatori. Solo attraverso un impegno collettivo sarà possibile mitigare gli effetti devastanti di un modello di consumo insostenibile e costruire un futuro più verde e giusto per tutti.