Scienza

Cervello, meditazione e preghiera coinvolgono le stesse aree cerebrali?

La meditazione e la preghiera sono spesso viste come pratiche opposte.

La prima è associata al silenzio e alla concentrazione, la seconda a un dialogo con il divino, talvolta accompagnato da espressioni emotive intense. Tuttavia, studi neuroscientifici recenti suggeriscono che entrambe potrebbero condividere un meccanismo comune nel cervello, capace di generare stati profondi di pace e gioia.

Uno studio condotto da ricercatori della McGill University, pubblicato sull’American Journal of Human Biology, ha analizzato due pratiche spirituali apparentemente molto diverse: la meditazione jhāna buddista e la glossolalia, ovvero il parlare in lingue tipico di alcune comunità cristiane. I risultati indicano che, nonostante le differenze, entrambe sfruttano un ciclo cognitivo simile per indurre stati di estasi e abbandono.

I ricercatori hanno chiamato questo processo “Attention, Arousal and Release Spiral” (spirale di attenzione, eccitazione e rilascio). In entrambe le pratiche, l’attenzione si focalizza su un elemento specifico (il respiro nella meditazione, Dio nella preghiera), generando un senso di gioia che, a sua volta, rende l’attenzione più fluida e naturale. Questo porta a uno stato di abbandono e immersione sempre più profondo.

Per analizzare queste esperienze, gli studiosi hanno raccolto testimonianze dirette da meditatori buddisti e fedeli cristiani durante i loro rituali. Inoltre, hanno registrato l’attività cerebrale dei partecipanti, individuando schemi comuni che suggeriscono l’attivazione di specifiche aree neurali.

Il Ruolo del Cervello nelle Esperienze Spirituali

Le regioni cerebrali coinvolte in queste pratiche includono la corteccia prefrontale, responsabile della concentrazione, e il sistema limbico, che regola le emozioni. Anche il Default Mode Network (DMN), associato all’autoriflessione e alle esperienze trascendenti, sembra avere un ruolo chiave nel processo. Queste strutture lavorano insieme per facilitare stati di consapevolezza intensificata e un senso di connessione profonda.

Un aspetto interessante dello studio è che questi effetti non dipendono dalla fede o dal contesto culturale. Il cervello umano sembra avere una predisposizione naturale a entrare in stati di immersione profonda, indipendentemente dal metodo utilizzato. Questo spiegherebbe perché pratiche spirituali diverse abbiano effetti simili sulla mente e sul corpo.

Donna che medita
Meditazione e preghiera, come si somigliano e come si distinguono (Freepik Foto) – www.qrios.it

Nuove Frontiere della Ricerca

Attualmente, i ricercatori stanno utilizzando tecniche avanzate di neuroimaging per mappare in dettaglio le variazioni dell’attività cerebrale durante la meditazione e la preghiera. Comprendere meglio questi processi potrebbe non solo fornire nuove prospettive sulle esperienze spirituali, ma anche aiutare a sviluppare tecniche per migliorare il benessere mentale.

Questi risultati potrebbero inoltre promuovere un senso di unità tra diverse tradizioni religiose e filosofiche. Se pratiche apparentemente opposte condividono meccanismi comuni, allora la spiritualità potrebbe essere vista come un’esperienza universale, basata su caratteristiche profonde della nostra mente e del nostro cervello.